Un recipiente raccoglie dischetti di cotone segnati dal trucco e dai cosmetici che ogni giorno indossiamo sul nostro volto. Un vestito di polveri che più o meno dense avvolgono i nostri lineamenti modulandoli per renderli conformi al modello al quale occorre omologarsi, al quale cerchiamo di aderire il più possibile. Così con il nostro volto, il nostro spirito si adatta ad una configurazione standardizzata nella quale ci identifichiamo. Siamo alieni, alienati dai nostri stessi gesti. Ci estraniamo dalla comprensione di noi stessi per immedesimarci nella realtà che ci circonda. L’uomo non è più individuo, ma altro da sé. Il suo esistere sordo si muove entro barriere invisibili che disegna ogni giorno di fronte a se stesso. Persa la propria integrità, la presenza spaesata dell’uomo si traveste e indossa gli abiti e i volti del globalizzato. La nostra identità derisa naufraga. Sono quel che ho saputo trattenere di me stesso, o sono la rappresentazione che ho costruito e propongo con cura e dedizione a me e al mondo, l’immagine che mi aspetto di essere? Chi è colui che si corica la sera dopo essersi struccato e ripulito, se la mia identità è rimasta su quei dischetti di cotone? Chi sta ospitando il mio letto?